Emilia Romagna
La cultura italiana della tavolaLa cultura italiana della tavola
Un calendario di iniziative speciali per scoprire e riscoprire la cultura enogastronomica Italiana: ogni mese un “viaggio” stimolante per approfondire eccellenze territoriali e ricette tradizionali, come sempre all’insegna della rivisitazione creativa e della piacevolezza.
Il calendario:
Giugno 2022 / Il Lazio
Luglio 2022 / La Campania
Settembre 2022 / La Sicilia e la Sardegna
Ottobre 2022 / Le Marche
Novembre e Dicembre 2022 / L’Umbria
Gennaio e Febbraio 2023 / La Toscana
Marzo e Aprile 2023 / L’Abruzzo
Maggio e Giugno 2023 / La Liguria
Luglio, Agosto e Settembre 2023 / La Puglia
Novembre, Dicembre, Gennaio 2024 / Il Piemonte
Le ricette Speciali del mese
per iniziare...
A seguire...
Secondi Piatti
Per concludere....
PER SAPERNE DI PIù…
“Il” Gnocco Fritto
(da Il giornale del cibo)
Le sue origini antiche sono da ricercarsi nella tradizione culinaria dei Longobardi, i quali, dopo la caduta dell’Impero Romano, hanno conquistato queste terre. Pare, quindi, che si sia così tramandato agli emiliani il segreto per la realizzazione di questa grande ricetta: lo strutto. Infatti, nella sua versione originale, lo gnocco fritto non è altro che un sostituto del pane realizzato con ingredienti semplici, come farina, acqua, sale e, ovviamente, strutto, usato sia nell’impasto sia nella frittura.
Nel corso dei secoli, questa preparazione si è diffusa in tutto il territorio emiliano-romagnolo: è così che, fino alla metà del ‘900, è diventata l’alimento base della colazione invernale contadina.
Tra influssi longobardi e origini emiliane, questa ricetta ha piantato le sue radici nelle province di Modena, Reggio Emilia e Bologna, tanto da ottenere il riconoscimento di “prodotto agroalimentare tradizionale” (PAT). Ma attenzione, perché tra una zona e l’altra ci sono alcune piccole differenze che si rispecchiano anche nei diversi nomi con cui viene chiamata.
Gnocc frett, al gnocch frètt, ‘l gnoc: sono parecchie le versioni in dialetto per chiamare “il” gnocco fritto, variante diffusa più che altro nelle province di Modena e di Reggio Emilia. Secondo la Confraternita del Gnocco d’Oro, la ricetta originale prevede l’uso di ingredienti semplicissimi, come farina, acqua gassata, sale e strutto. Niente lievito, quindi: si gonfia naturalmente grazie all’effetto dell’acqua minerale gassata. Inoltre, niente “olio nella frittura ma solo strutto”. In alcuni casi, è accettata l’aggiunta del latte nell’impasto per ammorbidirlo. La pasta viene stesa col mattarello e tagliata in rombi o rettangoli di circa 10-15 cm circa, oppure in tondi più grandi dal diametro di circa 25 cm, che vengono poi fritti nello strutto bollente.
Mortadella Favola Gran Riserva
(da Mortadella Favola)
Un secolo di esperienza nel mondo dei salumi, l’amore per la qualità e qualche buona idea hanno portato alla nascita di Favola, un prodotto che ha scritto una pagina nella storia della salumeria italiana.
C’era una volta una piccola bottega nel centro di Modena dove le carni più genuine venivano lavorate con cura da nonno Emilio per diventare salumi artigianali di qualità; era il 1919 e quella passione per le cose buone è rimasta immutata per tre generazioni nella famiglia Palmieri.
L’arte di fare salumi si è tramandata al figlio Carlo, che giovanissimo decise di fare nel salumificio degli zii l’esperienza che mise a frutto nel 1961 quando realizzò il suo sogno: aprire un’attività in proprio, trasferendosi nella Bassa Modenese ed avviando una produzione ancora artigianale di mortadelle, salami, ciccioli, pancette, coppe, utilizzando le carni dei suini che allevava e macellava.
Fu solo all’inizio degli anni ’90 che il salumificio si specializzò nella produzione di un unico salume, tipico della nostra tradizione e che da sempre appassionava Carlo: la mortadella.
L’idea di Mortadella Favola nasceva dalla volontà di differenziarsi dagli altri produttori offrendo un prodotto unico nel suo genere.
Carlo interrogandosi sul come inventare qualcosa di nuovo ebbe un’idea che per quanto semplice risultò estremamente efficace: applicare alla mortadella le conoscenze acquisite dalla produzione dello zampone e del cotechino.
Fin dal primo tentativo la mortadella cotta nella cotenna risultava essere più profumata, più lucente e con un sapore più delicato e leggero, e fu proprio allora che, in seguito all’esclamazione “Questa mortadella è una Favola!” nacque il nome che ancora oggi accompagna questo prodotto speciale.
La Mortadella Favola Gran Riserva è insaccata e cotta nella cotenna sottile e naturale.
Una ricetta semplice e naturale, composta da sole carni italiane pregiate, in particolare coscie e spalle provenienti da suini “pesanti” di allevamenti del circuito DOP e il guanciale (per la preparazione dei “lardini”), sale integrale dolce di Cervia, aromi naturali e miele.
Inconfondibile dal timbro a fuoco e dalla caratteristica cucitura, la legatura è fatta a mano con una particolare corda tricolore, Favola Gran Riserva è adatta anche per consumatori affetti da celiachia.
Coppa Piacentina Dop
La produzione della Coppa Piacentina risale all’epoca romana e si è tramandata nel tempo concentrandosi nell’area geografica della provincia di Piacenza.
Nella provincia di Piacenza si è sviluppata e tramandata un’abilità specifica dei produttori locali nella selezione e lavorazione dei tagli di carne, eliminando residui di grasso e sottili pezzi di carne magra.
La presenza di vallate fresche e ricche di acqua, ed aree collinari a vegetazione boschiva si riflettono positivamente sulle condizioni dei locali di stagionatura.
I requisiti caratteristici della Coppa Piacentina dipendono dalle condizioni ambientali e da fattori naturali e umani. , oltre che dalle tecniche di allevamento del suino pesante italiano determinanti per la qualità del taglio di carne utilizzato per la produzione della Coppa Piacentina.
I suini sono conformi alle prescrizioni già stabilite a livello nazionale per la materia prima dei prosciutti a denominazione di origine di Parma e S. Daniele.
La Coppa Piacentina è ricavata dai muscoli cervicali perfettamente dissanguati della regione superiore dei suini.
Il processo di elaborazione inizia con la salagione a secco che consiste nel mettere a contatto con le carni una miscela di sali ed aromi naturali.
E’ vietata la salagione in salamoia.
Le coppe salate sostano in frigorifero per almeno 7 gg. In questo periodo sono sottoposte al trattamento di “massaggiatura” manuale e successivamente sono rivestite con diaframma parietale suino. Infine si procede alla tradizionale legatura con spago ed alla foratura dell’involucro.
La stagionatura si protrae per un periodo minimo di sei mesi dalla data della avvenuta salatura.
Pancetta Arrotolata Dop
L’elaborazione localizzata della “Pancetta Piacentina” trae giustificazione dalle condizioni della microzona dell’area geografica. I fattori ambientali sono strettamente legati alle caratteristiche dell’area di produzione dove prevalgono vallate fresche e ricche di acqua, ed aree collinari a vegetazione boschiva che incidono in modo determinante sul clima e sulle caratteristiche del prodotto finito.
Gli allevamenti dei suini destinati alla produzione della Pancetta Piacentina debbono essere situati del territorio delle Regioni Lombardia ed Emilia Romagna. I suini nati, allevati e macellati nelle suddette Regioni debbono essere conformi alle prescrizioni già stabilite a livello nazionale per la materia prima dei prosciutti a denominazione d’origine di Parma e San Daniele.
Per la produzione della Pancetta Piacentina si utilizza la parte centrale del grasso di copertura della mezzena che va dalla regione retro sternale a quella inguinale, comprendendo la sola parte laterale delle mammelle. La pancetta rappresenta uno dei tagli adiposi del suino che si ottiene isolando con apposita sezionatura dapprima il cosiddetto “pancettone” che comprende varie parti e da cui si ottiene la pancetta vera e propria.
L’operazione di salagione é effettuata a mano. E’ vietata la salagione in salamoia.
Successivamente le pancette sono legate e la fase di stagionatura deve protrarsi per un periodo non inferiore a quattro mesi dalla data di salatura.
Prosciutto di Parma Dop
https://prosciuttodiparma.museidelcibo.it/il-prodotto/storia/
(da prosciuttodiparma.museidelcibo e piazzaprosciutti)
La fama del Prosciutto di Parma, esclusiva specialità dei Lardaroli Parmensi, affonda le sue radici in tempi lontani, all’epoca romana. Parma, allora situata nel cuore di quella che era la Gallia Cisalpina, era rinomata, come ricorda Varrone nel De Re Rustica, per l’attività dei suoi abitanti che allevavano grandi mandrie di porci ed erano particolarmente abili nel produrre prosciutti salati. Lo stesso Catone delinea già nel II secolo a. C., nel suo De Agri Coltura la tecnologia di produzione, sostanzialmente identica all’attuale.
Risalendo il corso dei secoli, del prosciutto e della tecnica di preparazione parlarono Polibio, Strabone, Orazio, Plauto e Giovenale. Riferimenti gastronomici al Prosciutto di Parma si trovano nel Libro de Cocina della seconda metà del Trecento, nel menù delle nozze Colonna del 1589, nel prezioso testo del Nascia, cuoco di Ranuccio Farnese nella seconda metà del XVII secolo. Il Prosciutto fa capolino tra le rime del Tassoni e nei consigli dietetici del medico bolognese Pisanelli.
Il Primo Ministro di don Filippo di Borbone, Guglielmo Du Tillot, aveva studiato un piano per la realizzazione, a Parma, di due macelli per suini, per valorizzare ed incrementare la locale industria dei salumi.
La denominazione di Prosciutto di Parma è attribuita in relazione alla zona di origine degli animali (Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Lazio Abruzzo, Molise) unita alle inimitabili condizioni microclimatiche ed ambientali di una delimitata area collinare della provincia di Parma, dovute all’azione dell’aria che giunge dal mare della Versilia e che, addolcendosi tra gli uliveti e le pinete della Val di Magra, asciugandosi ai passi appenninici ed arricchendosi del profumo dei castagni, arriva a prosciugare i Prosciutti di Parma e a renderne la dolcezza esclusiva.
L’Azienda Piazza
L’idea di produrre prosciutti a nonno Peppino gli dev’essere venuta in uno dei suoi tanti viaggi di lavoro – sui camion, quelli duri e poco gentili di una volta. Deve averlo ispirato proprio quella via che è una specie di Route 66 dei sapori: prosciuttifici, caseifici, vigne, trattorie, boschi colmi di porcini e selvaggina.
L’idea dev’essere nata proprio così: tornando a casa e osservando il Castello di Torrechiara, la splendida rocca a metà tra medioevo e rinascimento che apre le porte di Langhirano, paese dove Peppino è nato, ha lavorato ed ha sempre vissuto. È proprio qui che nel 1974, con l’aiuto della moglie Marisa e dei figli fonda la sua azienda, associandosi fin dal primo anno al Consorzio del Prosciutto di Parma.
Dal 1974 ad oggi il tempo sembra non essere mai passato. Peppino, infatti, non da vita solo ad un’azienda, ma da forma ad una passione e ad un metodo di lavoro basato su valori da seguire scrupolosamente, per poter raggiungere quella qualità estrema che contraddistingue da sempre i suoi prosciutti: famiglia, artigianalità, territorio. Nonostante gli oltre quarant’anni di attività, quest’azienda ha mantenuto la sua caratteristica fondamentale: quella di essere una realtà familiare. Oggi la gestione è in mano a Paolo e Umberto, che hanno scelto – come ha fatto il loro padre – di accogliere anche i loro figli.
Parmigiano Reggiano
Il Caseificio San Bernardino è un’azienda a conduzione famigliare che sorge sulle prime colline parmensi, erede di una storica sede di produzione di uno dei più rinomati tesori della Food Valley: il Parmigiano Reggiano D.O.P.
Una tradizione che ancora oggi viene portata avanti con grande orgoglio: da quattro generazioni infatti la famiglia Caramaschi tramanda di giorno in giorno l’esperienza e la passione per l’arte casearia, fatta di pochi gesti fondamentali ma anche di grande amore per il prodotto e la sua antica tradizione.
Oggi come allora, il Caseificio San Bernardino segue scrupolosamente l’antico procedimento fino a ottenere un prodotto dal sapore inimitabile e di grande pregio, all’interno di una struttura completa e moderna che consente di seguire con attenzione tutte le sue fasi.
Tre “ingredienti” fondamentali:
- il controllo dell’alimentazione degli animali con fieno e cereali di prima qualità, per avere ogni giorno il miglior latte fresco e profumato
- la cottura, eseguita ad arte secondo le regole d’oro del mastro casaro, che lascia sul prodotto il suo inimitabile tocco artigianale, sintesi perfetta di conoscenza tecnica e intuito delle mani
- la stagionatura, affidata al tempo e alle periodiche analisi di selezionati esperti, che solo dopo aver effettuato di debiti controlli su ogni forma, promuovono le migliori al titolo di Parmigiano Reggiano D.O.P.
La Riserva 24 mesi
Prodotto che come percorso di vita si affaccia alla sua sbocciata virilità. All’aspetto si presenta di colore chiaro, da leggermente paglierino a dorato tenue, friabile e granuloso.
All’analisi olfattiva sono predominanti sentori lattico vegetali e floreali. All’analisi gustativa si presenta elegantemente solubile, con il giusto rapporto di qualità tra dolce e saporito.
Al retrogusto riecheggiano sentori floreali fruttati.
Indicato sia in aperitivo che come pietanza, da condimento e in degustazione.
Squacquerone di Romagna Dop
(da ruminantia)
Lo Squacquerone di Romagna DOP è un formaggio fresco a pasta molle e a maturazione rapida. E’ prodotto esclusivamente con latte vaccino (precisamente delle razze Frisona, Bruna Alpina e Romagnola) ed è tipico delle province comprese fra Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini, Bologna e parte del territorio della provincia di Ferrara.
Le prime tracce certe e documentate della produzione di questo formaggio risalgono al 1800: Squacquerone è un termine appartenente al dialetto romagnolo che significa “squacquerare” (ovvero sciogliersi, diventare molle): il nome della DOP è stato evidentemente scelto per la sua consistenza deliquescente, cremosa e poco soda.
Lo Squacquerone di Romagna DOP si ottiene esclusivamente da latte vaccino intero. Proprio perché si sta parlando di un prodotto caseario estremamente delicato, inizialmente veniva prodotto unicamente d’inverno, per evitare che gli ingredienti si alterassero subito a causa del caldo. Attualmente lo Squacquerone è invece disponibile tutto l’anno ma il tempo di conservazione (shelf-life) di questo formaggio tipico è breve, di fatto si può protrarre solo per una decina di giorni.
Il sapore è gradevole, dolce e con una punta acidula, il salato è presente ma non in modo prepotente. L’aroma è delicato, tipicamente di latte ma con una spiccata nota erbacea che gli dà carattere. La consistenza morbida, ad elevata cremosità e la mancanza di nervo sono una conseguenza del tipo di latte impiegato nella produzione del formaggio.
Giardiniera
La giardiniera di verdure è una delle conserve più conosciute e apprezzate della cucina tradizionale italiana. Colorata e gustosa, la giardiniera è realizzata con ortaggi tagliati a tocchetti e lessati in acqua e aceto. Ricca e saporita, unisce la bontà e i sapori della nostra terra.
E’ un tipico piatto della cucina contadina: nata in Piemonte, è conosciuta anche come “antipasto piemontese” ed è uno dei più diffusi e famosi nell’Italia nord-occidentale. Si tratta di un piatto povero, la cui preparazione varia leggermente da famiglia a famiglia: ognuno, infatti, può utilizzare gli ortaggi che preferisce. Le sue origini risalgono al Medioevo, quando una conserva molto simile veniva preparata dai monaci dei monasteri del Piemonte e dell’Emilia Romagna. Questi erano abili nel far risaltare il gusto di ogni verdura senza aggiungere olio o sale. Essi lasciavano che il tempo di bollitura, l’aceto e le varie spezie donassero alla conserva un sapore deciso e delicato al tempo stesso. Una volta pronta, essa si conservava negli appositi vasetti che venivano lasciati al buio e al fresco affinché il calore e la luce non intaccassero colori e sapori. I vasi erano chiusi con tappi di legno e stracci. La giardiniera, inoltre, era molto apprezzata da alcuni noti personaggi storici. Fra questi, si annoverano il compositore Giuseppe Verdi e lo scrittore e giornalista Giovannino Guareschi. Il primo la consumava con la spalla cotta, il secondo con il cotechino lessato.
Friggione
(da ilgiornaledelcibo.it)
Ci sono dei piatti che nascono “poveri”, per le origini umili e gli ingredienti semplici, ma che col tempo, grazie alla loro complessità di sapori e alla riscoperta di gusti antichi, entrano a tutto diritto nella cultura gastronomica locale. È il caso del friggione bolognese, specialità tipica delle campagne emiliane al confine con la Romagna e perfetta espressione del detto “di far necessità virtù”.
Frizàn a Bologna o frizòn nella forma dialettale della “bassa bolognese rustico orientale”: comunque vogliate chiamarlo, il friggione bolognese era una preparazione “povera” a base di cipolle – ingrediente molto comune nelle campagne della zona – che si prestava perfettamente a diventare un piatto unico, anzi, la colazione e il pranzo dei contadini e braccianti agrari. Prima di andare nei campi o durante la sosta di mezzogiorno, i lavoratori erano soliti tirar fuori il friggione e abbinarlo a un pezzo di pane, oppure spalmarlo su una fetta di polenta arrostita la sera prima.
Non a caso, l’etimologia del termine sembra proprio richiamare un gesto tipicamente casalingo. “Frizàn” o “frizòn” fa riferimento al verbo “friggere” e, in particolare, a “soffriggere”: per preparare questa sorta di salsa, infatti, è fondamentale far sobbollire le cipolle a fuoco lento per un tempo lungo, compito che spettava all’azdòra, colei che si occupava della casa e la vera detentrice dell’arte culinaria.
È una preparazione rustica molto saporita, che nella ricetta originale ottocentesca prevedeva questi ingredienti: cipolle bianche lasciate soffriggere a fuoco lentissimo nello strutto, un pizzico di zucchero e sale grosso, e poi cotte a lungo insieme ai pomodori pelati freschi. Il tempo, insieme a una buona dose di pazienza, sono il segreto per realizzare un friggione perfetto: come anticipato, infatti, le cipolle devono macerare per almeno due ore e poi è prevista un’altra ora e mezza di cottura insieme ai pomodori.
Tuttavia, questa ricetta è stata “rivisitata” e adattata – sia per quantità che ingredienti – a quelli che erano i nuovi gusti culinari. La nuova versione prevede alcune variazioni o aggiunte: la cipolla non è più bianca ma gialla, e in particolare quella consigliata è la cipolla dorata di Medicina, comune in provincia di Bologna, dal sapore delicato ma persistente, e per questo particolarmente indicata per soffritti e sughi. Oltre a questa piccola variante, sono stati aggiunti due ingredienti: la pancetta e anche una punta di peperoncino, per dare quella nota in più.
Tagliatelle
Le tagliatelle sono un tipo di pasta conosciuto e consumato in tutto il mondo.
Con questa storiella, l’umorista bolognese Augusto Majani “inventò” l’origine delle tagliatelle – una delle paste più famose e conosciute al mondo:
“Nel 1487 il Signore di Bologna, Giovanni II di Bentivoglio, apprestandosi a ricevere la nobildonna Lucrezia Borgia in sosta a Bologna nel suo viaggio che la recava a Ferrara per sposare il duca Alfonso I D’este, diede incarico al suo cuoco di fiducia Mastro Zefirano di creare una pietanza che rendesse omaggio alla nobildonna, egli inventò le tagliatelle ispirandosi ai lunghi capelli biondi di Lucrezia Borgia”.
Le tagliatelle, in realtà, risalgono all’antica Roma. Il poeta latino Orazio, in una delle Satire, scrive: “inde domum me ad porris et ciceri refero laganique catinum”. Sta parlando di un piatto molto diffuso all’epoca: le lagane. La lagana era una pasta rettangolare più piccola delle lasagne ma più larga e più corta delle odierne tagliatelle, quindi – in un certo senso – un antenato ancestrale.
Artusi, ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, parla di “Tagliatelle all’uso di Romagna”, ma è solo nel 1972 che la delegazione bolognese dell’Accademia Italiana della Cucina deposita alla Camera di Commercio la misura della vera tagliatella, con un campione fatto in oro. La misura perfetta è la 12.270esima parte dell’altezza della Torre degli Asinelli, ovvero circa 7 mm a crudo.
Tortello
(da agricoltura.regione.emilia-romagna.it)
Primo piatto costituito da pasta sfoglia ripiena di un impasto a base di bietola lessata o spinaci e/o ricotta del quale esistono numerose varianti, conditi solitamente con burro e salvia o con soffritto. La sua tradizione affonda nel passato storico italiano e trova la sua nascita nella filosofia del riciclo tipico delle epoche passate, allorquando non si poteva, vista la scarsità dei prodotti, buttare via nulla riguardasse la tavola. Proprio per questo motivo sembra sia nata l’usanza delle paste ripiene, tortelli, ravioli, cappellacci, agnolotti e quant’altre presenti in maniera massiccia nella tradizione gastronomica di differenti città. Nelle famiglie reggiane è tradizione preparare i tortelli come primo piatto della cena della Vigilia di Natale, proponendo così un piatto ricco e gustoso rispettando il precetto di magro della Vigilia.
Anatra
(da buonissimo.it)
L’anatra, considerata un animale da cortile, può essere domestica o selvatica. Rientra nella categoria delle carni rosse utilizzabili quando il volatile ha circa 3 mesi ed un peso pari a circa 2,5 kg. La gastronomia della Francia ha una vera passione per il fegato (foie gras), nonostante sia meno pregiato di quello d’oca. Da non disdegnare nemmeno il prosciutto, dal sapore raffinato ma difficile da conservare. L’anatra è apprezzata soprattutto in abbinamento con la frutta, in particolare ciliegie, castagne, arance e mele.
Torta Barozzi
(da tortabarozzi)
Contrappunti di mandorle e arachidi in squisito cioccolato fondente. Lo stesso gusto indimenticabile che provò Eugenio Gollini quando si accorse di aver trovato la sua ricetta perfetta. Non sapeva ancora che avrebbe superato i cent’anni e fatto il giro del mondo…
‹‹…per descrivere la Torta Barozzi bisognerebbe essere per lo meno Tolstoj, mi scuso con la Torta se non son degno. Si presenta come una piccola zolla di terra, e come una zolla si sbriciola. È un incantevole mistero fatto di mille aromi che confondono il palato in una sinfonia di dolcezze…››
(Michele Serra)
La vera Torta Barozzi viene prodotta ancora oggi secondo la ricetta originale custodita in un piccolo laboratorio di famiglia nel cuore di Vignola.
Cioccolato fondente, mandorle e arachidi, uova, burro e zucchero, solo ingredienti di prima qualità senza coloranti né conservanti, esattamente come la faceva nonno Eugenio.
Visciole di Vignola
(da agricoltura.regione.emilia-romagna.it e cavazza1898)
Due IGP d’eccellenza: la Ciliegia di Vignola Igp e la Confettura di Amarene brusche di Modena
La prima si consuma appena raccolta, la seconda, inadatta alla commercializzazione per il consumo fresco, si trasforma in sciroppi, conserve e confetture.
Cavazza 1898
Adagiata tra il fiume Panaro e le dolci colline modenesi, Vignola è il paese delle ciliegie più famoso al mondo. Qui i frutteti colorano e profumano la campagna di mille suggestioni. E sempre qui, l’azienda Cavazza seleziona la migliore frutta di stagione, preparando specialità uniche nel loro genere.
Albana Romagna DOCG Passito
(da stefanoferrucci)
Prodotto da uve scelte di Albana della Serra sottoposte ad appassimento naturale appese su telai mobili, quindi vinificate con pressatura soffice e fermentazione in vasche di cemento vetrificato a temperatura controllata in presenza di lieviti selezionati.
Ha colore giallo oro lucido con sfumature ambrate, profumo ampio e persistente con sentore di uva passita, miele e frutta matura, sapore delicatamente dolce.